Cambiare fa male, ma può riservare grandi soddisfazioni

Cambiare fa male, ma può riservare grandi soddisfazioni

“Cambiamento” è una parola legata a un concetto che ci mette, in linea di massima, a disagio. Sulla carta, parlare di cambiamento è quanto di più moderno, progressista e avanzato che ci sia. Nella realtà, mentre siamo molto lesti ad augurare che le cose, la realtà, gli altri cambino, opponiamo molta più resistenza quando il cambiamento investe direttamente noi

Lo vediamo, molto semplicemente, con le classiche reazioni alle parole nuove, ai neologismi. “‘Apericena’ fa schifo”, si sente dire, oppure si definiscono “orride innovazioni” l’uso di “ministra” e “assessora”. 

Eppure, in ambito linguistico, il cambiamento di solito implica cose belle.

Quando, ad esempio, a cento anni dall’unità d’Italia, negli anni Sessanta del ventesimo secolo, finalmente gli italiani divennero italofoni, cioè presero a parlare la lingua nazionale in massa, la lingua iniziò a modificarsi, fondamentalmente nella direzione di una semplificazione. Quelli che secondo alcuni erano e sono dei cedimenti rispetto alla norma delle “tre corone” (Dante, Petrarca e Boccaccio), sono la dimostrazione di come, finalmente, la nostra lingua sia stata presa in carico da una grande comunità di parlanti che l’ha modificata perché fosse il più possibile funzionale alle sue necessità. Qualche esempio? “Domani vado” invece di “domani andrò” (presente pro futuro), “lui” invece di “egli” (chi usa “egli” soggetto oggi, al di fuori delle coniugazioni dei verbi?), la scomparsa, nell’uso vivo, di trapassato prossimo e remoto o futuro anteriore. 

In questo caso, il cambiamento implica che l’italiano sia finalmente diventato la lingua usata da tutti gli italiani, e non solo la pur eccezionale lingua dei rappresentanti massimi della nostra storia letteraria, un po’ ingessata per usarla nel nostro quotidiano.

E i neologismi? Vissuti come un grande trauma, come se la creazione di parole nuove fosse una disgrazia per la lingua, sono invece segno di una sua grande vitalità:

solo le lingue morte non creano più neologismi, ma si fossilizzano in un “presente lessicale” senza più movimento. 

Ma allora, come mai normalmente questi cambiamenti non ci piacciono? Semplice: ameremmo che la realtà, anche quella linguistica, rimanesse tale e quale a quella che ci hanno insegnato a scuola. Noi, esseri umani, vorremmo certezze, vorremmo liste di “si dice e non si dice”; i grigi sono complessi da gestire, vanno interpretati, occorre che ci ragioniamo. E ragionare, si sa, è faticoso e poco immediato.

Noi esseri umani siamo diventati in larga parte stanziali, sia fisicamente che nel pensiero. Accettare che ci sia la necessità continua di cambiare, di modificarsi, di evolvere, non è né immediato né facile.

La possibilità di cambiare è il nostro punto di forza. La resistenza a farlo è comprensibile. Ma dobbiamo vincerla, se vogliamo rinnovarci ancora, se vogliamo, alla fin fine, trovare la nostra collocazione nel mondo.

Cambiare è scomodo, cambiare fa male, cambiare fa paura.

Ma una volta superato il punto di non ritorno, una volta che si è preso atto della necessità di non rimanere arroccati sulle proprie posizioni, rifiutando il mutamento, potremmo scoprire nuovi mondi, nuove possibilità e anche nuovi “noi”, con una certa soddisfazione.

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